Le vicende del mondo del vino italiano possono fregiarsi di una manciata di vignaioli visionari e avventurieri. Tra loro c’era sicuramente Domenico Clerico, che dal 1976, partendo da tre ettari di vigna di Dolcetto, ereditati dal padre contadino, in breve ha rivoltato come un calzino, insieme con un manipolo di altri produttori, la viticoltura in Piemonte e in Italia. Del vino non aveva grandi cognizioni, prima di assumere la guida dell’azienda agricola paterna vendeva olio ligure praticamente porta a porta. Ma aveva cognizione delle potenzialità di un territorio unico. Le Langhe. Oggi la sua azienda, guidata dalla moglie Giuliana e dall’enologo Oscar Arrivabene, celebra dunque i primi quaranta’anni di vendemmia del Barolo, che s’impose non solo in Italia ma anche nei mercati internazionali, in primis gli Stati Uniti. La prima bottiglia fu quella rilasciata nel 1982 di Barolo Ginestra DOCG Ciabot Mentin. Una bottiglia che resta impressa nella storia della viticoltura del Bel Paese. Bandiera della maison che sventola ancora con l’ultima annata in commercio, la 2018.

«L’annata 2018 cade a fagiolo perché è un’annata che presenta l’eleganza all’ennesima potenza – ci dice Oscar Arrivabene –. Un’annata freschissima, leggerissima, tutta basata sul naso, con un tannino morbidissimo e levigato. Tanto da rimuovere lo stigma del Barolo come quel vino che bisogna aspettare anni per stapparne una bottiglia. Al contrario questo Barolo è già pronto. Non necessariamente dobbiamo aspettare sette natali per aprirlo e gustare con un capretto. Per carità di Dio, l’invecchiamento ben venga, ma questa vendemmia ha prodotto un vino subito apprezzabile e del quale viene voglia di aprire anche più di una bottiglia immediatamente. Per noi non è importante solo creare vini per collezionisti o appassionati che tengono le bottiglie per anni in cantina, ma abbiamo anche lo scopo di produrre un vino contemporaneo, come da sempre lo ha concepito Domenico Clerico. Ciabot Mentin 2018 ha una bevibilità davvero impagabile. E aiuta a comprendere parte dei traguardi raggiunti da Barolo oggi. Parliamo quindi di un esercizio di stile per comprendere quanto da un’annata così elegante si può ottenere su una vigna storica»

Partiamo dalle origini, i Barolo Boys (and Girl per la verità, perché il Gruppo comprendeva anche Chiara Boschis).
Nel Dopoguerra la realtà delle Langhe era assai povera. Negli anni Settanta avvenne la svolta. Domenico Clerico e gli altri giovani vignerons, ma allora più che vignaioli contadini e agricoltori,  comprendono che i loro piedi poggiano su un territorio altamente vocato al vino. Avevano tutti poco più di vent’anni.

Ma Domenico Clerico iniziò la sua attività con il Dolcetto.
Sì, perché nei tre ettari vitati di proprietà era allevato solo questo vitigno, che era quello che più funzionava. Si producevano vini di pronta beva, tanto che nelle trattorie il bicchier dell’acqua era più grande di quello del vino. L’idea di fare grandi vini da degustare non era quasi concepibile. Il vino era un semplice accompagnamento del cibo. Rosso per le carni, bianco per il pesce. Venduto e servito sfuso. Il Barolo era snobbato.

Quindi a un certo punto si guarda alla Francia
Assolutamente, Domenico Clerico era conscio delle proprie capacità, tanto da sapere di avere delle incapacità. Prima di prendere in mano la direzione dell’azienda agricola del padre nel 1976, il suo mestiere era commerciare l’olio d’oliva ligure, ma si accorge che i conti non tornano. Quindi con altri produttori prende e va in Borgogna a imparare. E per prima cosa si accorge che una damigiana di vino in Piemonte non costava quanto una bottiglia da 750 ml. in Francia. Quindi i Barolo Boys comprendono che il vino debba esprimere il territorio, essere estremamente pulito,  parlare della vigna di provenienza e puntare su una qualità eccellente.

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Quando nasce il concetto vero e proprio di “cru” riguardo al Barolo?

I crus, o meglio le Menzioni Geografiche Aggiuntive sono relativamente recenti, nascono con l’annata 2007. Si era cercato di dare un’identità a quelle che noi chiamavamo cascine. Il territorio del Barolo ha pertanto identificato delle sotto zone particolarmente vocate, Domenico in particolare era rappresentato in Ginestra, Mosconi e Bussia. Quelle che oggi sono le MGA, cioè i terroir più vocati già erano stati identificati storicamente da mediatori e compratori, che acquistavano le uve da determinati vigneti, che sapevano essere migliori di altre. Già nel 1961, per esempio Ratti aveva prodotto delle mappe in cui distingueva i Premier Crus e pagava le uve dei conferitori con prezzi differenti a seconda delle zone di provenienza. Domenico Clerico, nel momento di acquistare vigne e terreni,  ne comprendeva il valore su una base storica consolidata.

Dai Barolo Boys, che hanno rivoltato come un calzino in Piemonte la viticoltura, dando anche un esempio non da poco nel resto d’Italia, oggi quali sono le innovazioni principali sul vostro territorio?
Credo che siamo la regione più in fermento oggi, non solo in Italia, ma nel mondo. Tuttavia, dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra passato, presente e futuro. Ogni passo verso il futuro va compiuto pensando ai decenni successivi. I tempi dell’agricoltura e quelli del vino in particolare hanno orizzonti lunghi. Dobbismo conservare la tradizione consolidata del Barolo, ma allo stesso tempo non sederci sugli obiettivi raggiunti fino a oggi. Ogni volta che facciamo un nuovo impianto in vigna dobbiamo pensare a ciò che otterremo nei 50 anni successivi e lo stesso vale per la scelta del vetro. Insomma ogni aspetto del lavoro in vigna e in cantina va ragionato in una lunga prospettiva temporale. Un altro passo fondamentale è quello della certificazione biologica. Domenico Clerico l’ha richiesta nel 2020 e la prima annata sarà quindi nel 2024. Sempre tempi lunghi nel mondo del vino. E sempre quindi la necessità di ragionare nell’arco di anni. Non di giorni, non di settimane e mesi. E il lavoro che compiamo oggi consiste nel traghettare Domenico Clerico nella nuova generazione, tra cinquanta anni.

Passando dalla vigna alla cantina, quanto conta la tecnologia?
Fermo restando che bisogna sempre partire dalle uve migliori del territorio, storicamente attestate anche da 50 anni, in cantina bisogna lavora al meglio, perché il potenziale si esprima. Fare cioè un fotografia più nitida possibile del prodotto primario. L’obbiettivo di Domenico Clerico era fin dal principio ottenere un grande vino, pertanto anche oggi perseguiamo questo scopo, dalle botti al resto, ogni aspetto del lavoro in cantina è ottenere che nel calice si ritrovi il migliore vino possibile. La tecnologia è al servizio del bicchiere. Selezione degli acini uno a uno, riduzione dei solfiti, pompe che evitino l’ossidazione del mosto e tanto know-how.

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Come descrivere il Barolo a chi non è pratico del vino? Con quali aggettivi e con quali parole?
Le prime che mi vengono in mente sono eleganza  bevibilità. Il Barolo ha la forza di essere abbinabile quasi a tutti i piatti, possiede importanza e insieme  leggerezza. Il Barolo rappresenta la piemontosità, cioè la capacità di entrare in punta di piedi in qualsiasi situazione. Il Barol ha la capacità di imporsi nl mondo dei vini senza schiamazzi.

Un’ultima domanda sul vostro progetto riguardo al mondo dell’arte contemporanea.

Be’, intanto una delle nostre prime etichette si chiama appunto Arte Langhe Rosso DOC, pertanto abbiamo pensato di coinvolgere l’Accademia Albertina di Belle Arti. Quindi commissioniamo etichette artistiche anche per comunicare il nostro passato, un passato nel quale facevamo vini d’assemblaggio di nebbiolo da Barolo e Barbera, che utilizzavamo come cavallo di Troia, proprio per evidenziare le grandi potenzialità della nostra viticoltura e in particolare del Barolo, che in questi primi vini, apprezzatissimi, era presente in percentuale preponderante, mentre ancora il Barolo era assai sottovalutato. E pertanto, ricordando ancora i Barolo Boys e le difficoltà che affrontarono, ci siamo impegnati in questa impresa di mecenatismo, nel sostegno di giovani artisti, che grazie a queste etichette creative, ottengo oggi una visibilità in tutto il mondo. Ogni volta che presentiamo quel vino, parliamo prima di loro e poi di noi.