Il fine dining non sta vivendo uno dei suoi momenti migliori. Negli ultimi 15 anni il settore F&B ha vissuto sicuramente una stagione d’oro, che ha portato con sé molti cambiamenti legati soprattutto all’approccio con il cibo e, naturalmente, la sua fruizione. Gli chef sono diventati star della televisione, la critica gastrononima ha osannato chi sperimentava di più, i piatti sono diventati più piccoli, le telecamere dei nostri telefoni cellulari hanno iniziato a mangiare prima di noi, abbiamo cominciato a prestare maggiore attenzione alla provenienza e ai metodi di produzione del cibo che finiva nei nostri piatti, l’esperienza è salita alla ribalta, prendendo il posto del nutrimento.

Poi è arrivato il 2020, che doveva essere un anno di festeggiamenti: la fine di un decennio e l’inizio di uno nuovo, ma – come sappiamo bene – tutto è stato improvvisamente interrotto dalla pandemia di Covid-19. Interrotto ma anche cambiato rapidamente. Le preferenze dei consumatori si stavano già evolvendo anche prima che la pandemia prendesse d’assalto il mondo: i Millennial e la Generazione Z stavano guidando questa trasformazione, che andava verso luoghi con vibrazioni e atmosfere meno formali, interni di design e, soprattutto, una proposta dall’ottimo rapporto qualità-prezzo, scelta, questa, preferita rispetto ai ristoranti fine dining che, a volte discutibilmente, erano percepiti come classisti perché fuori dalla portata della gente comune.

Queste preferenze dei consumatori continuano ad affermarsi anche ora e hanno avuto un significativo impatto sull’industria della cucina fine dining in tutto il mondo.

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Redzepi, al centro, con una parte del suo staff del Noma

René Redzepi ha sbalordito il mondo del cibo lo scorso gennaio annunciando l’intenzione di chiudere  nel 2024 il suo ristorante di Copenaghen, Noma, per cinque volte primo in classifica nella 50th Best mondiale, motivando la decisione per via dei  costi finanziario ed emotivi della gestione di un’attività per la quale non basta vendere menu degustazione a 500-800 euro a testa per trarne profitto. «Lo stile di cucina raffinata che Noma ha contribuito a creare e promuovere in tutto il mondo (selvaggiamente innovativo, ad alta intensità di manodopera e molto costoso) potrebbe subire una crisi di sostenibilità», ha scritto Julia Moskin sul New York Times. Il ristorante di Redzepi e i suoi lussuosi antenati, come El Bulli di Ferran Adrià (che ha chiuso nel 2011 dopo aver subito enormi perdite), hanno spinto i limiti della cucina creativa oltre i limiti fin lì immaginabili, ma l’hanno anche spinta a prezzi extraterrestri. L’imminente chiusura del Noma dimostra che anche con una clientela benestante, una lunga lista d’attesa e un menu che costa quanto un biglietto di andata e ritorno per gli States, il bilancio di un ristorante può essere ancora in rosso.

Al centro, Norbert Niederkofler

E quando uno degli chef più decorati al mondo come Redzepi dice che l’economia del ristorante è fallita, c’è da fermarsi e pensare. «Ciò che questa notizia significa per me è un segnale di avvertimento lampeggiante per la fine della cucina raffinata globale», ha dichiarato a Bon Appetit l’ex redattore capo di Food & Wine Dana Cowin. Da un paio di settimane anche l’Italia è stata scossa in questo senso: chiude a fine marzo, ufficialmente per ristrutturazione, il tre Stelle Michelin St. Hubertus dell’Hotel Rosa Alpina a San Cassiano, in Alta Badia. Il suo chef, Norbert Niederkofler, non risponde alle interviste, ma si trincera dietro una nota stampa: «La chiusura per ristrutturazione del ristorante – dichiara lo chef nella nota – è conseguente alla scelta della proprietà di rinnovare l’albergo nel quale è inserito». Hugo Pizzinini, proprietario della struttura, a fine di dicembre 2020 aveva siglato una partnership con il gruppo asiatico Aman: un accordo che prevedeva un rinnovamento su più fronti, tra cui stanze più grandi e Spa rinnovata in senso orientale. Chi la conosce, sa che la catena Aman offre un lusso rilassante per una clientela altospendente, ma non per questo gourmet: a tavola, predilige proporre ai propri ospiti poca sperimentazione e molta concretezza. Forse troppa per poter puntare ancora su un tre Stelle Michelin, tant’è che se Niederkofler resterà al St. Hubertus è ancora tutto da definire: «Con la proprietà non abbiamo ancora definito quale concetto affrontare per una possibile riapertura del St. Hubertus – prosegue la nota dello chef -. Pertanto, da fine marzo mi concentrerò nel portare avanti i progetti che da anni sto seguendo con la società Mo-Food, di cui sono co-proprietario insieme a Paolo Ferretti».

Qualche giorno fa, invece, arrivava la notizia direttamente dai social di Giancarlo Perbellini: Casa Perbellini, 2 Stelle Michelin a Verona, si trasferisce negli spazi dei 12 Apostoli, locale non solo con 1 Stella Michelin, ma soprattutto che ha fatto la storia della ristorazione della città di Romeo e Giulietta. Comprensibile l’entusiasmo dello chef, che qui aveva mosso i suoi primi passi e che, sempre qui, c’è da scommetterci, punterà alla terza Stella. Ma se guardiamo dietro ai festeggiamenti, vediamo una famiglia, quella dei Gioco, fondatori dei 12 Apostoli, che con ogni probabilità erano stanchi di dover far quadrare i conti. O almeno così dicono i rumors.

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In un reportage per il Financial Times pubblicato all’inizio di quest’anno, Imogen West-Knights scrive: “Nei ristoranti di alta cucina vengono raccontate due storie. Il primo è in sala da pranzo, uno spettacolo perfettamente coreografato di lusso ed eccellenza, uno spettacolo così finemente sintonizzato, fino all’arredamento, alle divise del personale, alla musica, alle stoviglie, che per certi versi il cibo stesso è l’elemento meno importante. E poi c’è la storia che tu, come commensale, non dovresti mai ascoltare. La storia di ciò che accade dall’altra parte del muro della cucina”. West-Knights si riferisce soprattutto alle pesanti pratiche di sfruttamento di centinaia di stagisti, disposti a tutto pur di poter scrivere sul proprio curriculum di aver lavorato al Noma o in qualsiasi altro ristorante famoso.

E non è cambiato niente, almeno nell’ultimo secolo. Di sfruttamento e lavoro massacrante, ne scriveva George Orwell in Down and Out in Paris and London, pubblicato nel 1933. A Parigi, Orwell lavora come lavapiatti in un ristorante per guadagnarsi da mangiare. Le giornate sono interminabili e arriva a lavorare ininterrottamente per 17 o 18 ore. Down and Out in Paris and London lo scrittore racconta dettagliatamente i turni di lavoro insostenibili, le angherie dei colleghi e dei capi e soprattutto la miseria quotidiana.

Un sistema impazzito, che è ben rappresentato anche dal film che da qualche settimana è disponibile su Prime, The Menu, horror culinario che dipinge il fallimento di un sistema e di un mondo che non ha più i piedi per terra. A Hawthorn, ristorante stellato nel cuore di un’isola privata guidato da Slowik, interpretato magistralmente da Ralph Finnes, il prezzo è 1.250 dollari a testa, sottomissione allo chef inclusa. Un’introduzione efficace tratteggia personaggi e personalità che bramano le “esperienze” e venerano il cibo rarefatto, tutti tranne Margot, outsider senza ricchezza e senza privilegi che fuma sigarette e se ne fotte delle papille gustative. Una commedia orrorifica nemica della sofisticazione mondana, che ha finito per corrompere le proprie scale di valori. Accomodati i suoi ospiti, inebriati con rossi invecchiati o bianchi ghiacciati, punta i riflettori sul suo chef che recita marziale la sua filosofia alimentare. Le sfumature sono sinistre ma i commensali sono in estasi e non vedono il codice matrix sottostante, fino alla terza portata, tortillas ‘incise’ e personalizzate. E a quel punto è troppo tardi. Non andiamo oltre nel racconto per non guastare la visione del film.

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Tornando alle notizie che hanno sconvolto il mondo della ristorazione, la cosa realmente importante è riflettere su qualcosa che va ben oltre la fine di un’insegna nota, ovvero che potrebbe – e sottolineiamo potrebbe – essere in corso una crisi esistenziale del pranzo stesso, oltre che un cambiamento percettibile nel discorso culturale sulla cucina fine dining.

E forse qualcuno lo ha già capito. Diversi chef famosi – Anthony Bourdain ne è un esempio – hanno già iniziato a cercare di democratizzare l’esperienza del consumo esplorando generi più economici e inclusivi come il cibo di strada. Lo ha fatto anche Dabiz Munoz, il giovane istrionico e presto papà deus ex machina di DiverXO, a Madrid, tra i più “desiderati” 3 Stelle Michelin del mondo. Da qualche mese ha aperto, sempre a Madrid, GoXO, food delivery di “comida casera imaginativa”.

È il momento di fermarsi e riflettere.