Da Firenze a New York, passando attraverso l’unità d’Italia, la nobiltà fiorentina dell’Ottocento, un conte dalla vita avventurosa, la Golden age of cocktails americana, i ranch del Wyoming, i club dei lussuosi hotel e i casinò, le corse dei cavalli all’ippodromo, gli amori clandestini e quelli travolgenti, il fruscio della seta, i ventagli e i corsetti. La storia del Negroni racchiude in sé tutto questo e anche molto di più. Chi lo avrebbe mai detto? Non sarebbe così se non ci fosse stato un barman, Luca Picchi, talmente caparbio e appassionato di storia, da riuscire là dove nessuno era ancora riuscito: andare oltre la leggenda di questo cocktail e fare una minuziosa ricostruzione storica, supportata da fior fior di documentazione scritta, che poi ha raccolto in un libro ormai cult, edito da Giunti nel 2015, dal titolo “Negroni cocktail una leggenda italiana”.

Tra storia e leggenda

La leggenda ha sempre raccontato che l’aperitivo fosse stato inventato dal conte Camillo Negroni, di cui poco altro si sapeva fino a pochi anni fa, e dal barman Fosco Scarselli. «Oggi invece è certo – racconta Picchi, che dal 2017 è bar manager del gruppo Valensa e dei bar Gilli 1733 e Caffè Paszkowski 1903, a Firenze  – che il drink fu inventato da Negroni e che Scarselli non fece altro che realizzarlo, al Casoni in via Tornabuoni, che poi divenne il caffè Giacosa e ora è il bar di Roberto Cavalli». Il Casoni era una drogheria di lusso, posizionato su un crocevia di strade di grande passaggio in pieno centro a Firenze e proprio di fornti al palazzo degli eredi Navone, specializzati in merletti e sete ricamate: da loro si recavano tutte le teste coronate più in vista per farsi confezionare i corredi nuziali e altre sciccherie. E poi, naturalmente, andavano a bere qualcosa al Casoni, che si era attrezzato per servire il bere di lusso: Champagne, vini da tutto il mondo, Vermuth, liquori, caffè, tè selezionati. È qui che Camillo Negroni, sempre elegantissimo nei suoi abiti all’ultima moda, si recava spesso e volentieri per un cocktail, dopo il suo rientro in Italia dagli Stati Uniti.

Camillo, figlio del nobile Enrico Negroni e di Ada Savage Landor, nipote del poeta Walter Savage Landor, era un avventuriero, uomo di grande fascino e di altrettanta cultura, ed era andato oltreoceano per buttarsi alle spalle l’amore osteggiato per una giovane nobildonna di Modena da cui era nato anche un figlio (che Camillo legittimò in tarda età). La sua destinazione era il Wyoming, dove inizialmente fa il cowboy nella fattoria di Walter Cunningham, di cui in breve tempo diventa il braccio destro.

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Di lì, nel 1899 si sposta a New York, dove apre una scuola di scherma in Madison Avenue: i cinque anni che Negorni trascorre nella Grande Mela sono fondamentali, perché quello era il momento della Golden age of cocktail, l’arte della miscelazione era diffusissima e il cocktail era già un must have e uno status simbol in America. Camillo frequenta i club più importanti di New York, gioca a poker, va a scommettere negli ippodromi, fa la bella vita. Poi perde la testa per una ragazza del New Jersey, che sposa e con la quale decide di far ritorno in Italia nel 1904. Per otto anni vivono a Bolgheri ospiti dei Marchesi della Gherardesca, periodo nel quale Negroni contraccambia la loro ospitalità seguendo i cavalli da corsa della loro scuderia, poi nel 1912 decide di tornare a Firenze e ricomincia a frequentare i locali più mondani dell’epoca, tra cui appunto il Casoni.

Le 18 erano diventate l’ora del Vermuth anche nel capoluogo fiorentino, abitudine acquisita dai torinesi nel periodo in cui Firenze era diventata temporaneamente capitale d’Italia. Il Vermuth non era una novità, già dal 1700 era una ricetta diffusa utilizzata nelle campagne per recuperare i vini difettosi conciandoli con assenzio e altre erbe, ma quello di Torino era di qualità nettamente superiore e, anche per via del suo costo, era un vero e proprio status symbol. L’ora del Vermuth era rimasta un’abitudine in città anche dopo che la capitale d’Italia era diventata Roma: veniva servito refrigerato, servito nei bicchierini a stelo chiamati campanelle, servito liscio con uno spruzzo di Selz, che nel 1800 era un’altra cosa che distingueva i locali. Tra fine ‘800 e i primi del ‘900 la miscelazione inizia a diffondersi anche in Italia: la prima mistura italiana era l’Americano, che al tempo non era altro che il Vermuth servito nella campanella miscelato con un amaro, che in realtà al tempo era il bitter Campari.

Così, Camillo Negroni, abituato ai cocktail di New York, si trova a poter gustare solo l’Americano, che però non rispondeva molto alle sue abitudini, era un po’ troppo leggero per i suoi gusti. «Così – racconta Picchi – tra il 1918 e il 1920 il conte sussurrò all’orecchio del barman del Casoni, Fosco Scarselli, di togliere la soda e di mettere al suo posto il gin, alcolico ricercatissimo all’epoca. È così che nasce il Negroni, nei piccoli bicchieri dell’epoca a forma di campanella: la ricetta originale era a base di Vermuth con uno schizzo di Campari, quel tanto di gin che gli desse la forza e uno spruzzo di selz, utile a mescolare tutti gli ingredienti e a far sprigionare il profumo. E poi il tocco di classe finale: il conte dice al barman di sostituire la nazional popolare scorzetta di limone con una fetta d’arancia, frutto al tempo già difficile da trovare in stagione, figuriamoci tutto l’anno».

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Come è evoluta la ricetta del Negroni nel tempo

«Negli anni ‘60 – prosegue il bar manager – è stato deciso di standardizzare la ricetta in proporzioni uguali, quindi 1/3 – 1/3 – 1/3. Oggi questo dogma secondo me va rivisto alla luce di un mercato che ha una scelta molto ampia di gin, vermuth e bitter. Il Negroni perfetto ruota tutto sul bilanciamento, a livello sensoriale più che alcolico, anche a costo di variare le proporzioni degli ingredienti. Mi spiego con un esempio: fermo restando il bitter Campari, se usi un gin di ultima generazione a 40 botaniche molto strutturato, con grossa personalità, non si può usare un vermuth complesso. Allo stesso modo, se si utilizza un vermuth importante, non si aggiungerà un gin strutturato. Ricordiamoci che negli anni scorsi il Negroni è stato uno dei cocktail più twistati, cioè fatto con più varianti, al mondo». Una delle ricette che Picchi ama di più realizzare è con il vermuth di Antica Torino, il gin Panarea (Island o Sunset) e il bitter Gran Milano: «Il Negroni fatto con questi 3 prodotti – conclude – lo vedo diviso in decimi, quindi 4 parti di gin, 3 di bitter e 3 di vermuth.  Se si sceglie il gin Island si otterrà un Negroni ultra bilanciato, più netto, pulito, deciso e lungo. Se si sceglie il Sunset (perfetto per il gin&tonic), invece,  le sue note aromatiche di basilico e pompelmo, avremo un gin più fresco e mediterraneo». A voi la scelta.