Essere i primi, non per spirito di competizione ma per aver seguito una visione, per l’esigenza di cambiare le regole e gli schemi imposti quando non sono ritenuti adeguati, per riuscire a ottenere il meglio, con coraggio e determinazione. In questo senso, Silvano Brescianini è il «capitano» che tutti vorrebbero avere: è l’amministratore delegato dell’azienda vinicola Barone Pizzini, presidente del Consorzio di Franciacorta e anche Maestro e membro del Consiglio Reggitore dell’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei vini d’Alba (il Barolo è tra i suoi vini prediletti). Un uomo simbolo della brescianità, diretto e concreto, ma con uno spirito cosmopolita ed eclettico aperto al mondo e alle sue infinite possibilità. È lui il «barone della Franciacorta», ribelle ma di grande disciplina: un «barone rampante» come il giovane Cosimo del romanzo di Italo Calvino che, però, invece di vivere sopra gli alberi, ha realizzato la sua visione del mondo e instaurato nuove regole per migliorare il futuro restando solidamente radicato tra le vigne.

«Sono arrivato in azienda nel 1992, con il progetto di aprire un ristorante, cosa che ho fatto due anni più tardi, quando ho iniziato anche a seguire la cantina. Ero sommelier, ma non sono tuttora né agronomo né enologo. Forse, proprio perché avevo un’esperienza professionale diversa, ero rimasto subito sorpreso dal fatto che in campagna si dovessero usare diserbanti e pesticidi per fare un vino di qualità». 

Da quel momento è maturata la sua visione di produrre un vino biologico.

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Nei primi anni ho cercato di capire meglio come si svolgeva il lavoro: quando non sei nel tuo settore tutti iniziano a dirti, che “no, bisogna fare così…”, oppure che “è sempre stato fatto così, tu non capisci, è così che funziona…”.  Poi ho conosciuto l’agronomo Pierluigi Donna, che ha spiegato e dimostrato come si potesse fare agricoltura anche senza pesticidi di sintesi e diserbanti. Ed è così è che iniziata circa 25 anni fa la nostra strada del biologico

Silvano Brescianini

Con la vendemmia 2002 è nato il primo Franciacorta bio, risultato pionieristico in un’azienda da sempre in pole position: già nel 1927 il Barone Edoardo Pizzini Piomarta era stato tra i primi in Italia a promuovere un impianto per il gioco del golf nella sua proprietà (oggi Golf 1927 è il nome di un vino dell’azienda); poi nel 1967, la maison era tra i primi produttori di bollicine quando la Franciacorta è stata riconosciuta come zona a denominazione di origine controllata. E, ancora, nel 2021, è nato il primo Franciacorta con Erbamat, un vitigno autoctono bresciano molto antico, riscoperto solo negli ultimi 20 anni.

«Fin da ragazzo ho avuto la fortuna di lavorare in grandi ristoranti e poter degustare etichette eccezionali – racconta Brescianini -. Ho vissuto a stretto contatto con l’alta cucina e con i grandi vini e quando ho dovuto affrontare la gestione di una cantina e di una vendemmia ho sempre e solo pensato a come poter fare sempre meglio». Ed è con lo stesso spirito appassionato, il rispetto del territorio e con i principi cardine della biodiversità e dell’agricoltura biologica che sono state affrontate le successive avventure vinicole di Barone Pizzini in altri territori italiani: nelle Marche dei Castelli di Jesi con Pievalta, di cui Brescianini è presidente, progetto nato per investire su vitigni autoctoni come il Verdicchio, e Poderi di Ghiaccioforte in Maremma, dove l’attività è concentrata sui vitigni di Sangiovese, Carignano Nero e Vermentino. 

Avendo iniziato la sua esperienza professionale quando c’erano solo 4 ristoranti due stelle Michelin – la Cassinetta di Lugagnano, il San Domenico di Imola, l’Enoteca Pinchiorri e Gualtiero Marchesi (e ancora nessun tristellato) -, Silvano Brescianini ha assistito al lungo e straordinario percorso fatto negli ultimi 30 anni dalla cucina italiana: «Penso che non si sia mai mangiato e bevuto bene come oggi. Soprattutto da dieci anni a questa parte c’è questa nuova, grande cucina italiana che ha acquisito valore e importanza a livello internazionale. Si mangiava bene anche prima, ma l’alta ristorazione era quasi esclusivamente di impronta francese, era difficile trovare uno spaghetto in una carta importante. Oggi è diverso, facciamo scuola anche noi. Abbiamo visto crescere di pari passo la cucina e il vino del nostro Paese, con numerosi ristoranti italiani che vengono aperti nel mondo, che prima erano solo bistrot, trattorie o pizzerie, mentre oggi sono anche di altissimo libello, basti pensare a Da Vittorio, a Nico Romito, a Bottura. È un progresso importante, perché l’alta ristorazione ha un po’ il ruolo della Formula Uno nei motori, cioè far evolvere nuove tecniche, soluzioni, proposte, valorizzare sempre di più i prodotti italiani: sono gli ambasciatori di una filiera, rappresentano gli agricoltori, gli artigiani, aiutano a presentarli degnamente nel mondo». 

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E il successo del vino italiano all’estero? «Sta crescendo molto, anche se il fatto si muoversi ancora singolarmente, e non come Paese, rallenta il percorso. In questo si potrebbe migliorare molto. Molte etichette italiane hanno conquistato posti importanti nelle carte dei vini, in particolare Barolo e Brunello di Montalcino, e poi Sassicaia, Ornellaia e alcuni Amarone, che sono entrati nel circuito dei grandi collezionisti. Ma riscuotono successo anche terroir più piccoli come la Franciacorta, che per ora però non può crescere più di tanto per mancanza di prodotto. Abbiamo bisogno di annate normali che purtroppo negli ultimi anni non ci sono state».  

Tra le sfide e i progetti futuri, quella più impegnativa riguarda Pievalta, «un territorio che ha un potenziale incredibile con un vitigno meraviglioso. Lì c’è ancora tanto da fare». E poi L’Erbamat: «Spero di avere entro un paio d’anni la selezione clonale, per ora siamo ancora in fase sperimentale, quello che abbiamo oggi lo usiamo nel taglio dell’Animante, al 5 %. È un percorso lungo ma in cui credo fermamente, è un’eredità che abbiamo ricevuto da chi c’era prima di noi e non accade tutti i giorni di trovare un vitigno presente per cinque secoli nel territorio, con le caratteristiche di acidità e di finezza che ben si sposano con il vino che produci. È un regalo che ci ha fatto la storia e abbiamo il dovere di interpretarlo al meglio».