Enrico Bartolini, il secondo chef più stellato del mondo si racconta

Enrico Bartolini è l’arciere dell’alta cucina italiana che fa sempre centro. Lo chef toscano, preciso e discreto, porta sulla casacca bianca tanti riconoscimenti quasi quanti l’ex nuotatore gigante Michael Phelps, soprannominato “Il proiettile di Baltimora”. Mentre ogni freccia di Enrico Bartolini (classe 1979) va a segno.
Oggi Bartolini è il secondo cuoco stellato del mondo a pari merito con Martín Berasategui e Pierre Gagnaire, preceduto da Alain Ducasse. Dodici Stelle Michelin più una stella verde, per una costellazione di otto ristoranti, a cominciare da quello del Mudec di Milano. E oggi come tutte, o quasi, le star della Rossa, Bartolini è indicato come chef imprenditore. Un’espressione che indica bene quale sia stata l’evoluzione dell’alta cucina negli ultimi 20/25 anni. Un’evoluzione che meriterebbe uno studio e un approfondimento. Sociologico, antropologico, culturale. Ma Enrico Bartolini, forse grazie alle sue origini toscane, da sempre sembra contrassegnato da un’illuminata concretezza e – perché no? – concentrazione. Come quella, appunto, di un arciere esperto che scocca i propri dardi con meticolosa precisione (e anche velocità).
In cucina dominano la competenza dello chef fuoriclasse, lo stile, il senso del bello, la bottega/cucina dove tira su le sue giovani brigate come un maestro del Rinascimento. Quindi possiede lo spirito, ancora umanistico e rinascimentale di un imprenditore, che fa tesoro del proprio know how e lo amplia e ridistribuisce. fancy magazine lo ha intervistato per ripercorrere con lui alcuni momenti salienti della sua carriera.
Vorrei cominciare dai suoi esordi, dal Bartolini studente dell’Istituto Alberghiero e dalla sua prima esperienza nella trattoria di suo zio a Pistoia. Qual è stata l’impronta più profonda ricevuta in quegli anni e quale era il suo sogno a occhi aperti allora? «Sognavo di fare bene il mestiere e lo conoscevo attraverso le trattorie semplici, come quella dello zio dove si facevano i maltagliati di pasta fresca con i porcini… Non immaginavo esistesse il fine dining, a parte i ristoranti che vedevo pubblicati su qualche rivista, fino a che non sono arrivato a Parigi».
È sempre stato un primo della classe?«A scuola ero attento, educato, disciplinato, ma non il primo della classe: andavo bene e non ho mai preso una nota né bigiato».
Quali sono stati i suoi compagni di strada che ricorda con maggiore affetto, simpatia e che lo hanno più accompagnato nella sua formazione?
«Ce ne sono tanti, ne cito uno perché è il più simpatico: Paolo Trippini, che ha un ristorante a Civitella del Lago, con cui ho lavorato sia a Pistoia sia a Berlino, le nostre strade poi si sono divise: io sono andato a Le Calandre e lui è tornato a casa per lavorare nel ristorante di famiglia facendo una buona carriera».
Il riconoscimento o i riconoscimenti più importanti al netto delle stelle Michelin? Sia nella vita professionale che in quella privata.
«Nella vita privata ovviamente al primo posto ci sono i figli. Gli affetti comunque sono le cose che maggiormente rincuorano, soprattutto quelli che nel tempo si consolidano, migliorano o si adeguano ai difetti e ai pregi dell’uno e dell’altro. Ci sono persone che lavorano con me da tempo di cui sono professionalmente innamorato e a livello umano abbiamo condiviso molto. I riconoscimenti più belli sono quelli che hanno ricevuto gli altri, in particolare le due stelle sia a Donato Ascani (resident chef del Glam di Venezia, ndr) sia a Gabriele Boffa (resident chef di Locanda del Sant’Uffizio, ndr). Mi hanno emozionato perché ho visto premiate non solo l’impostazione, la qualità e il talento, ma anche una finezza, una completezza delle persone a cui è stata data fiducia e di tutto il team che ha dato prestigio a tutto il progetto che abbiamo condiviso».
Molti piatti recenti nascono da idee dei miei collaboratori, al Mudec in particolare da Davide Boglioli. Cerco di dargli degli stimoli e di guidarlo, ma anche di farlo sentire nel posto giusto premiando le sue idee e conducendole assieme a lui nella forma, nella tecnica e nella scenografia di presentazione.
Enrico Bartolini
Quale processo segue nell’invenzione di un nuovo piatto? E quanto conta il ruolo dei suoi collaboratori in questo processo?
«Molti piatti recenti nascono da idee dei miei collaboratori, al Mudec in particolare da Davide Boglioli. Cerco di dargli degli stimoli e di guidarlo, ma anche di farlo sentire nel posto giusto premiando le sue idee e conducendole assieme a lui nella forma, nella tecnica e nella scenografia di presentazione in modo che sia adeguata al nostro ristorante, che sinora ha avuto uno stile molto particolare e quindi non voglio stravolgere la direzione creativa; però la vorrei affinare dando ancora più carattere, anche un po’ più giovane, così da dare ai nostri ospiti più frequenti un messaggio sempre nuovo e sempre più interessante».
La gran parte degli chef si formano nella scuola della cucina francese, che ovviamente ha una tradizione formidabile. Taluni anche in Giappone e nel Nord Europa. Ma che cosa può mancare a un giovane chef straniero, senza una formazione in Italia? In altre parole, qual è il tocco distintivo dell’alta cucina italiana?
«Noi tutti giovani e under 40 o poco più siamo passati dalla Francia o comunque da stili francesi, perché un tempo, circa vent’anni fa, la scuola di cucina era solo francese. Oggi tanti chef italiani, non solo stellati, hanno alzato il livello, pertanto, c’è tanta scuola anche da noi, c’è una disciplina, ci sono diverse filosofie e abbiamo ingredienti che ci consentono di studiare con maggiore naturalezza. Un giovane oggi, anziché fare tante esperienze e collezionare viaggi, dovrebbe fermarsi in un ristorante a fare pratica e studiare quel tipo di percorso per avere una propria identità più ricca e più formata. Girare tanto va bene solo per alcuni caratteri, molti a mio avviso si perdono un po’, perché oggi c’è troppo di tutto e un giovane più segue una scelta e più la può migliorare nella qualità».
Tre parole chiave che distinguono il suo lavoro. Al netto della fatica!
«Talento, territorio e contemporaneità».
Quanto e come è cambiato il ruolo del cuoco e del ristoratore da quando lei, ricevette la prima stella?
«Quando ho ricevuto la prima stella c’erano i blog di cucina, parlo di 13 anni fa, ma è come se fosse trascorsa una vita… il settore mediatico si è sviluppato, ha informato il mondo che esistiamo, che c’è benessere, che c’è cultura, che esistono le tecniche, ci sono tante persone innamorate dell’emotività della tavola, altre più fanatiche, ma quasi tutti hanno un interesse per la cucina e la grandeur dei ristoranti italiani in questo caso».
Tornando ai suoi inizi, ora da Chef Mentor per la Guida Michelin ci può dire quali sono i punti di forza dei giovani cuochi e quelli su cui c’è ancora da lavorare?
«Ogni giovane ha dei genitori ed è giusto che li ami e si lasci consigliare, professionalmente può avere delle guide di cui può “innamorarsi” e quindi, come dicevo prima, può andare in giro e fare esperienze finché non trova il luogo giusto dove investire un po’ più di fatica e di attenzione, è giusto cercare… e quando un adulto premia e guida è bene che ci sia una reciproca attenzione affinché gli adulti consolidino la loro posizione anche autorevole e culturale, e i giovani si arricchiscano per prendere poi il posto degli adulti».
Altre tre parole chiave legate al mondo della gastronomia: cultura, territorio, esperienza sensoriale…
«Sicuramente come dicevo prima cultura, territorio, emotività. Un’espressione chiave che vorrei sottolineare è qualità dell’accoglienza, quindi il mondo della sala, dove il settore vino ha preso uno spazio importante e quindi da conoscere e guidare. E poi anche la filiera che ha un’importanza immensa, sia per la sostenibilità sia per la qualità di ciò che si usa in cucina».
Un’espressione chiave che vorrei sottolineare è qualità dell’accoglienza, quindi il mondo della sala, dove il settore vino ha preso uno spazio importante e quindi da conoscere e guidare.
Enrico Bartolini